Kasparhauser
2014
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Corpo e spazio ■ A partire da Francesca Woodman
A cura di Francesca Brencio
Ventiquattropertrantasei
di Fabrizio Corvi
30 giugno 2014
Desidero esprimere il mio più autentico ringraziamento a Marco Baldino e a tutto lo staff che provvede alla cura di questo bellissimo luogo che è Kasparhauser. Quando Francesca Brencio mi chiese di scrivere su Francesca Woodman in un contesto così particolare e specifico, mi sentii davvero onorato, ma anche un po' perplesso: il mio primo pensiero fu per le modalità scientifiche con cui Kasparhauser esplora i propri territori e quelli che, pagina dopo pagina, articolo dopo articolo, conquista. Poi mi sono detto che, in fondo, chi meglio di un fotografo può comprendere certi meccanismi che portano un altro fotografo a fare ciò che fa? Ma soprattutto, perché un fotografo che indaga il lato oscuro dell'umanità non dovrebbe rendere manifesti i propri pensieri riguardo una fotografa come la Woodman, che quel lato oscuro lo ha visto tanto da vicino da restarne vittima?
Non so quanti di voi che state leggendo abbiano mai guardato attraverso il mirino di una fotocamera o quanti lo facciano anche solo saltuariamente, per passatempo; immagino comunque che in pochissimi vi dedichiate con continuità alla realizzazione di immagini fotografiche e che un numero davvero più che esiguo di voi faccia della fotografia uno strumento di rappresentazione di sé e dei propri pensieri. Per coloro che faticano a comprendere nel dettaglio cosa significhi avere a disposizione un quadratino di 24 x 36 mm sul quale fissare una propria idea (24x36 è la misura standard di un negativo su pellicola o su sensore elettronico), credo sia bene chiarire alcuni punti che reputo fondamentali per l'approccio al lavoro della Woodman; in realtà sono considerazioni utili in generale, ma dal momento che qui si parla di lei, questi punti assumono un'importanza davvero particolare.
Ognuno di noi ha una percezione del mondo esterno generata dai propri sensi; se sei un fotografo e scegli la fotografia come tuo medium, il senso che prediligi è la vista, sei certamente un visivo e la tua mente dà forma al tuo pensiero generando immagini. Contrariamente agli auditivi il cui universo interiore è fatto di suoni, o ai cinestesici che prediligono le sensazioni tattili, olfattive o gustative, i visivi “guardano” i propri pensieri, la propria mente è occupata a formare ed osservare scene reali, immaginarie, allegoriche, grandi e luminose o piccole e buie, ma comunque immagini. Intendiamoci, le modalità con cui il pensiero del mondo nasce in noi non ineriscono esclusivamente uno dei sensi; si tratta sempre di una varietà di segnali complessi, ma ognuno di noi ha un senso che predilige in maniera abbastanza evidente rispetto agli altri. Oltre che a motivazioni dettate da preferenze generiche o fisiologiche, questo tipo di predilezione può avere ragioni patologiche: un bambino con problemi di vista sarà più portato a costruire l’idea del proprio mondo attraverso i suoni che percepisce, attraverso i rumori; costruirà dentro di sé, in buona sostanza, dei percorsi lungo i quali, più che le immagini, saranno gli stimoli sonori a guidarlo e a condizionare i propri pensieri, le proprie esperienze e, successivamente, a formare i propri ricordi. Per motivi diversi potrebbe invece privilegiare sensazioni tattili e olfattive/gustative. Diverse caratteristiche possono variare a seconda che una persona prediliga un senso piuttosto che un altro: un cinestesico è spesso portato ad appoggiarsi fisicamente a qualcosa, a stabilire un contatto tattile con il mondo che lo circonda, un auditivo tenderà, in linea di massima, ad assumere una postura raccolta, più adatta ad ascoltare ed ascoltarsi; tenderà, quando parla, ad essere il più chiaro e circostanziato possibile, sarà prodigo di particolari e non lesinerà parole per le sue particolareggiate descrizioni. I visivi no. Essi parlano velocemente, vanno subito al punto e tendono a tralasciare dettagli e particolari: questo accade perché mentre trasformano in parola un pensiero (immagine) che vedono dentro di sé, a quello se ne sostituisce velocemente un altro e poi un altro ancora. La parola è uno strumento troppo lento per descrivere il susseguirsi delle immagini che appaiono e scompaiono nella mente di un visivo. Se chiedete ad un cinestesico come ha trascorso le proprie vacanze, vi parlerà del profumo del mare... della sensazione carezzevole della brezza sulla pelle, dei sapori della cucina locale... probabilmente vi descriverà con ogni cura la morbidezza degli asciugamani di spugna in dotazione all'hotel nel quale hanno soggiornato. Se chiedete ad un visivo come sono state le sue vacanze, probabilmente vi dirà: “bellissime!”. E forse basta.
Riuscirete a tirar fuori da lui poco di più, perso come sarà dietro alle mille immagini che la propria mente produce con vorticosa copia. È cosa nota che quantità e qualità vadano d’accordo di rado; ecco perché sono pochissimi i fotografi che realizzano immagini di alto livello: le scene che la nostra mente compone, sono generate e filtrate dall’esperienza, dalla sensibilità, dalla dote culturale e dall'intelligenza. La statistica ci insegna che metà della popolazione ha un'intelligenza inferiore alla media(na); applicando questa considerazione al mondo dei fotografi, è lecito pensare che gran parte di loro (ahimè, di noi) producano immagini numerosissime e di poco conto.
Pensate invece al modo in cui Francesca Woodman, assolutamente visiva, ragazza sensibile e dall'intelligenza acuta, ha visto il proprio mondo, la propria vita dentro di sé e come ma soprattutto perché di tutte quelle immagini, ne abbia fermate solo alcune. E quali. Le prime immagini sono del 1971: Francesca ha 13 anni. È famosa la fotografia in cui, ancora poco più che bambina, realizza un autoritratto con il volto completamente coperto dai capelli mentre aziona la macchina fotografica utilizzando un bastone. È strabiliante pensare che un’immagine di tale complessità creativa possa essere stata concepita e realizzata da una tredicenne. Francesca Woodman ha davvero già dentro di sé tutto il suo destino. La fotocamera sarà per lei il medium maieutico che la condurrà per mano dalle provinciali e cupe profondità di Rhode Island alla terrazza di New York dalla quale si lancerà nel vuoto 9 anni dopo. Immagini, immagini e ancora immagini; nella mente di Francesca si affollano, si rincorrono, si fondono e si inseguono, cambiano di forma e di colore. Velocemente, continuamente. Un indizio rivelatore di questa marea dentro la mente di Francesca Woodman può essere riscontrato nella ormai famosa lettera che scrive alla sua amica Sabina Mirri (che appare anche in alcune sue fotografie):
L’idea per Space [una serie realizzata nel 1975-76 a Rhode Island] era molto più solidificata due o tre anni fa. Avevo l’idea di illustrare fisicamente metafore letterarie (the white lie) e di fare metafore fisiche per idee morali (la reputazione). E tuttavia, lavorando lentamente ad altri progetti, ho smarrito la particolarità di questa idea e sono venuta fuori con un gruppo di immagini che non illustravano nessun concetto specifico ma sono la storia di qualcuno che esplora un’idea […] seguiamo la figura che cerca di risolvere l’idea come se fosse un problema matematico e di inserirsi dentro l’equazione. Un paio di mesi dopo […] sono ritornata alla teoria originale per illustrare Self-deceit […] la cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida.
Le idee in Francesca cambiano in corso d'opera perché cambiano le immagini dei suoi pensieri; è per questo che Francesca scrive molto delle sue fotografie: ha la necessità di fissare quelle immagini prima che mutino ancora, prima che diventino troppo lontane per essere realizzate. Quando torna a quella che lei definisce “l’idea originale” di Space per la serie Self Deceit (auto-inganno), vede il suo corpo che sparisce e che viene assorbito dall'ambiente per “illustrare fisicamente metafore letterarie” (the white lie la candida menzogna) e “metafore fisiche per idee morali” (la reputazione). È vero come afferma nella lettera che l'intenzione non è quella di nascondersi da sé, ma il celarsi alla macchina da presa che ferma queste immagini non è diverso dal celarsi alla macchina che l'aveva ritratta senza volto quando aveva 13 anni. La candida menzogna... la reputazione... l’auto-inganno... dai suoi scritti non si evince, ma nessuno mi toglie dalla testa che Francesca Woodman abbia subito un evento davvero traumatico in giovanissima età, prima dei 13 anni, prima che cominciasse a fotografarsi.
Mi rendo conto che i lettori di Kasparhauser non sono il pubblico più incline alle congetture, ma voglio che teniate presente che io sono un fotografo, non uno scienziato; non essere soggetto ai protocolli dell’indagine accademica mi consente di suggerire percorsi alternativi sulla base di semplici sensazioni; queste sensazioni potrebbero scaturire dal motivo per cui le sue immagini sono la rappresentazione fotografica di una identità negata, di una volontà di sparizione, di un episodio di coercizione, come le diverse volte in cui si fotografa con un braccio torto dietro la schiena, o addirittura di una metaforica crocifissione, come quando si fotografa appesa alla cornice di una porta; oppure quando urla silenziosamente con quel “Self-portrait Talking To Vince” in cui dalla sua bocca spalancata escono parole informi, trasparenti, illeggibili e mute. Forse è quello l'urlo pacato con il quale chiede a sé stessa di salvare la delicatezza della bambina che era prima che svanisca nell'humus putrescente delle proprie visioni che stanno diventando ossessive.
“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate”.
Nelle sue immagini, quasi sempre, lei non c'è; come se lo spazio circostante il suo corpo non fosse lo spazio di “quel” corpo, come una visitatrice da un altro mondo. Lei è spesso assente anche se visibile, vuoi per l'uso di pose lunghe che danno ai suoi movimenti in campo una specie di effetto fantasma, vuoi per il fatto che raramente si ritrae in posizione frontale e a viso scoperto. Rispetto al mondo che noi siamo soliti vivere lei è altrove, rifiutata o assorbita, a volte fagocitata come un corpo estraneo che i globuli bianchi del nostro universo sensibile includono e metabolizzano. Le posizioni che assume sono perlopiù raccolte, come quelle di chi vuole proteggersi da un ulteriore offesa. Le sue espressioni, quando non timorose o figlie un male interiore, sono di profonda austerità.
È comunque troppo facile dare una lettura esclusivamente tanatologica dell’opera di Francesca Woodman: che la si chiami sparizione, che la si chiami assorbimento nell'ambiente, che la si chiami mimesi o che la si chiami come si vuole, la morte è un elemento talmente presente in lei che leggere le sue foto come un presagio della sua fine è semplice e naturale; talmente semplice che viene da chiedersi come mai nessuno abbia pensato di intervenire in qualche modo quando era ancora in vita. Francesca assiste addirittura alla sua stessa fine e ferma questa fine nella foto in cui è seduta davanti all'impronta che un corpo femminile ha lasciato nella polvere e in un'altra in cui il proprio corpo giace sulla sabbia in riva al mare con tanto di fiori a terra ed una testimone in abito nero che la assiste con il viso coperto da uno specchio che riflette il suo stesso volto.
La Woodman è però molto più della sua morte: è una poetessa, è una lanciatrice di messaggi in bottiglia, è una immaginatrice dei sentimenti dell'aldiquà, è una di quelle rare anime che cercavano di salvare la bellezza dell'arte mentre i mercanti ed i critici pennivendoli la distruggevano; ma prima di ogni cosa è una fotografa talmente brava, talmente grande, talmente espressiva che l’aver impedito a sé stessa di continuare a produrre immagini tanto meravigliose è una specie di crimine contro l'umanità artistica. Per questo motivo, nonostante io sia sempre stato artisticamente pazzo di lei, non la perdonerò mai.
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